Un’imprenditrice materana ha avviato ormai da qualche anno la commercializzazione del tradizionale dolce lucano – chiamato la “scorzetta” –  completamente reinterpretato nella ricetta, nella forma e nella confezione (qui https://bisc-otto.com/), sì da creare un nuovo prodotto che sta riscuotendo grande successo tra il pubblico. A tale prodotto vi ha successivamente abbinato la commercializzazione di gadgets, tra cui block notes, shoppers e pochettes di alta qualità.

Su tali accessori sono state stampate delle frasi scherzose come “parzialmente stremato”, “bagaglio emotivo”, oppure “serve la tenacia di radio maria in galleria”.

Quest’ultima spiritosità è risultata particolarmente riuscita. Infatti, è noto che il segnale radio della citata emittente radiofonica è capace di essere recepito praticamente ovunque sul territorio nazionale, anche nelle località più remote e, addirittura, all’interno delle gallerie stradali, ove di solito nessun altro segnale radio viene captato. Si potrebbe affermare che questa caratteristica di Radio Maria è fatto notorio, tanto che se ne trova riscontro anche in rete (si veda qui). L’imprenditrice materana ha perciò fantasiosamente attribuito alle onde hertziane di Radio Maria la (laudativa: si veda il Dizionario Treccani qui) qualità della tenacia, utilizzando l’escamotage retorico della personificazione, rendendo così particolarmente arguto il motto di spirito, anche grazie all’uso della rima baciata.

Un pigro martedì pomeriggio la nostra imprenditrice riceveva però una diffida scritta che le intimava a rimuove il segno “Radio Maria” dal suo sito internet e dalle pochette commercializzate. Ella richiedeva perciò un parere legale sulla nascente vertenza.

Orbene, “Radio Maria” è in effetti marchio registrato (d’ora in avanti per brevità anche solo il “Marchio”), e perciò, in effetti, l’ipotesi di contraffazione ben avrebbe potuto configurarsi.

Prima di affrontare la questione riguardante l’asserita violazione del Marchio, sia permessa una breve digressione sull’importanza delle diffide in generale, prendendo spunto da quella di cui in parola.

Il più delle volte le diffide rappresentano non solo l’occasione per far emergere le illiceità commesse in buona fede ma, soprattutto, rappresentano l’occasione per eliminare detta illiceità e per addivenire al componimento bonario della insorta controversia senza far ricorso all’Autorità Giudiziaria, con enorme risparmio di costi e di tempo per i soggetti coinvolti.  Si ritiene perciò condivisibile la proposta di quella dottrina (Philipp Fabbio) che suggerisce, de jure condendo, l’introduzione anche in Italia di una norma simile a quella prevista dall’art. 93 del Zivilprozessordnung (codice di procedura civile) tedesco che sanziona l’attore, addossandogli per intero le spese del procedimento, che intenta un giudizio nonostante il convenuto avesse riconosciuto stragiudizialmente le pretese fatte valere dal primo per mezzo di diffida.

Probabilmente una norma simile contribuirebbe (forse più di altre) a sortire quell’effetto “deflattivo” del contenzioso tanto agognato dal legislatore.

Si rileva che, solitamente, nella pratica quotidiana, le diffide che ingiungono un obbligo di facere o di non facere sono riscontrate dal Collega “avversario” con comunicazione articolata in due parti. Il diffidato innanzitutto procede apparecchiando le motivazioni alla luce delle quali la diffida sarebbe infondata “in fatto ed in diritto”; dopodiché (ove non rigetti qualsiasi addebito) dichiara – “comunque” e solo “pro bono pacis” – di aderire alle richieste del diffidante (in maniera più o meno piena in dipendenza del tenore delle richieste) secondo le modalità che il più delle volte saranno oggetto di successivo atto transattivo. Generalmente si adotta tale bipartita struttura perché, probabilmente, si aderisce alla regola che prescriverebbe di non ammettere mai la propria responsabilità, neanche ove essa fosse in ipotesi di tutta evidenza; e ciò forse per una connaturata incertezza dell’avvocato circa l’esito di un eventuale giudizio (ché “non si sa mai come potrebbe andare a finire”).

Tornando all’ipotesi in esame, si è riscontrata la intimazione del titolare del Marchio riconoscendo apertamente ­– contrariamente alla prassi segnalata – l’errore contestato alla imprenditrice materana (l’aver cioè denominato, sul proprio sito web, le borsette in questione come “Pochette Radio Maria”); di conseguenza si è rappresentata l’adesione incondizionata alla richiesta avanzata (cioè la immediata rimozione del Marchio dal nome del gadget). 

Tuttavia – e qui risiede l’oggetto precipuo di questo post – si è però fermamente contestato che l’uso del Marchio nella spiritosità stampata sulla borsetta fosse illecito. Sembra, infatti, che venga qui in rilevo un tipo di uso consentito del marchio altrui.

Le norme di riferimento paiono essere l’art. 21 e l’art. 20 del codice di proprietà industriale (c.p.i.).

L’art. 21 c.p.i. come è noto “scrimina” gli utilizzi del segno che riguardano l’uso del proprio nome o indirizzo (per le persone fisiche; lett. a), ovvero gli utilizzi che riguardano “la specie, la qualità, la quantità, la destinazione, il valore, la provenienza geografica” o “altr[e] caratteristic[he]” del prodotto (lett. b), ovvero l’utilizzo che abbia la finalità di “identificare o fare riferimento a prodotti o servizi del titolare di tale marchio […] per indicare la destinazione di un prodotto o servizio” (lett. c).

Se le specifiche ipotesi previste dal comma 1 dell’art. 21 c.p.i fossero meramente esemplificative – come pure si è affermato, ancorché in tempi meno recenti, sull’assunto che la norma dia attuazione al principio della liceità di tutti gli usi non distintivi (salvo l’eccezione dei marchi rinomati) – allora si potrebbe sostenere che l’uso in parola del Marchio sarebbe “scriminato” sotto tale norma in quanto avente finalità non distintiva.

Secondo l’interpretazione giurisprudenziale data all’art. 6 della prima direttiva marchi CE, corrispondente all’art. 21 c.p.i. (CGUE, C-238/03, caso Gillette), l’uso del Marchio nel caso concreto appare infatti  essere: (i) non suscettibile di far pensare che esista un collegamento tra il titolare del Marchio e l’imprenditrice materana; (ii) tale da non pregiudicare il valore del Marchio traendone indebitamente vantaggio dal suo carattere distintivo o notorio; (iii) tale da non arrecare discredito o denigrazione al Marchio; e infine (iv) tale da non potersi affermare che la nostra imprenditrice abbia presentato il proprio prodotto come un’imitazione del “prodotto” (in realtà un servizio) del titolare del marchio.

Ritenuto che non si realizzi nel caso concreto un’ipotesi riconducibile alle ipotesi sub (i) e (iv), vi è, in relazione ai punti sub. (ii) e (iii), che l’uso in concreto del Marchio si limita ad evocare solo la “forza” del segnale radio del titolare del Marchio (così capillarmente diffuso da raggiungere, come detto, anche i tratti stradali in galleria) rendendo sagace il motto di spirito in cui il Marchio è utilizzato. Infatti, qualunque sia il messaggio o i valori comunicati dal Marchio e protetti dall’ordinamento, tali non sembrano ricomprendere la “forza” del suo segnale radio. Pertanto, anche ammesso che l’imprenditrice materana tragga un vantaggio nell’evocazione del Marchio, tale vantaggio si ridurrebbe solo a rendere particolarmente spiritosa la frase in questione, traducendosi al più in un “semplice vantaggio” ritenuto legittimamente perseguibile dalla giurisprudenza comunitaria (C-63/97, caso BMW), e che certamente non realizza alcuna forma di parassitismo.

Qualora invece si ritenesse più correttamente che l’art. 21 co. 1 c.p.i. contempli un numerus clausus di ipotesi scriminate (si cfr. CGUE C-102/07, caso Aidas/Marca Mode), bisognerebbe allora verificare se il titolare del Marchio possa vietare l’uso qui fattone ai sensi della disposizione di cui all’art. 20 c.p.i. (“Diritti conferiti dalla registrazione”).

Poiché il Marchio viene utilizzato a fini palesemente parodistici, tra l’altro per un prodotto che non ha alcuna affinità con il servizio per cui esso è normalmente utilizzato, l’uso nel caso concreto del Marchio non può ragionevolmente determinare un rischio di confusione per il pubblico di riferimento che molto difficilmente potrà ritenere che la pochette in questione provenga dall’associazione Radio Maria o da una sua collegata.

Qualora poi si ritenesse che il Marchio fosse rinomato, sembra che non sia comunque integrata la corrispondente ipotesi di cui all’art. 20 c.p.i., per gli stessi motivi per i quali la condotta si riterrebbe scusata alla luce dell’insegnamento del caso Gillette; cioè per la totale assenza di un comportamento mirato a trarre indebito vantaggio dal carattere distintivo o dalla rinomanza del Marchio o teso ad arrecarvi pregiudizio, nel caso di specie del tutto assente. Con l’ulteriore precisazione che, per le stesse ragioni, è altresì da escludere l’instaurazione di ogni “nesso” tra il Marchio (e il messaggio che esso trasmette) e il segno come utilizzato nel caso concreto; sicché non può dirsi che tale utilizzo indebolisca (o “diluisca”) la capacità del Marchio di individuare una sola origine commerciale; la quale, anzi, ne sembra uscire rafforzata.

Infine, e a fugare ogni eventuale dubbio, vi è che il Marchio, in quanto utilizzato in una espressione che è probabilmente qualificabile come opera dell’ingegno di carattere creativo ex art. 1 e 2 L.d.A. – tutelata dal Diritto d’Autore in quanto “originale”, “creativa” e avente una sua “compiutezza espressiva” – rappresenta espressione di una libera manifestazione del pensiero e, perciò, costituzionalmente tutelata (analogamente, CGUE, C-329/09, caso Interflora).

Il riscontro dato alla diffida nei termini citati sembra aver disinnescato la vertenza. Potremo pertanto vedere in giro e, volendo, acquistare quelle borsette recanti il simpatico motto di spirito.

Attesa la denotazione laudativa così attribuita al Marchio, connaturata alla positiva qualità della tenacia, non è del tutto escluso che un giorno il suo titolare vorrà egli stesso utilizzare autoironicamente quella spiritosità; e chissà se, in tal caso, non dovrà richiedere il consenso della nostra imprenditrice.