Basta anche un richiamo incidentale e decontestualizzato alla parola «Italia» per integrare il reato di vendita di prodotti industriali con segni mendaci. La Corte di cassazione – Terza sezione penale, sentenza 38931/17 depositata ieri – ribadisce la linea severa per la difesa del made in Italy, confermando la condanna di un imprenditore della provincia di Varese per aver importato poco più di 300 magliette con «fallace indicazione» circa la provenienza.
Il fatto era stato scoperto sette anni fa alla dogana commerciale dell’aeroporto di Milano Malpensa, dove i funzionari avevano bloccato lo stock di t-shirts sulle quali era stata aggiunta un’etichetta con riferimenti più o meno vaghi al sito internet dell’azienda. In realtà questa seconda etichetta, a giudizio dei tribunali di merito, serviva a spostare l’attenzione del consumatore sull’estensione finale «Italy» rispetto alla provenienza (cinese) del prodotto stesso, peraltro neppure indicata nella prima e molto simile etichetta.
Nel ricorso contro la condanna (poco più che simbolica, 1 mese di reclusione e 1.000 euro, ma con la contestuale confisca delle magliette “italianizzate”) l’imprenditore lombardo sottolineava la (asserita) inconferenza dell’effettivo luogo di produzione. Secondo questo punto di vista – ripreso anche dalla sentenza 24043 del 2006 – l’espressione «origine o provenienza del prodotto» farebbe riferimento solo a un determinato produttore, garante in sostanza degli standard qualitativi del prodotto, e non invece ai luoghi della manifattura.
La Cassazione ha tuttavia invece riconfermato l’orientamento ormai definito sul made in Italy, anche alla luce della norma chiara contenuta nella legge Finanziaria per il 2004: «Costituisce fallace indicazione, anche qualora sia indicata l’origine e la provenienza estera dei prodotti o delle merci, l’uso di segni, figure, o quant’altro possa indurre il consumatore a ritenere che il prodotto o la merce sia di origine italiana». Nel caso specifico il produttore/importatore aveva aggiunto una seconda etichetta che, richiamando la struttura di una stringa web, aveva per obiettivo proprio solo e quello di disorientare un consumatore anche «mediamente attento» ai requisiti del prodotto acquistato. La Terza sottolinea che il sito internet indicato nell’etichetta aggiuntiva era stato inizialmente creato per facilitare la commercializzazione del prodotto, ma che in realtà la fattispecie analizzata riguarda una semplice commercializzazione in Italia di capi interamente prodotti all’estero e «recanti fallaci indicazioni di provenienza italiana».
fonte: http://www.quotidianodiritto.ilsole24ore.com/art/penale/2017-08-07/made-italy-tutela-rafforzata-201314.php?uuid=AEPzU79B&cmpid=nlql