Uncategorized / 14 Aprile 2015 / by Vincenzo Vinciguerra

Maltrattamenti in famiglia: NO al relativismo etico

Nessuna scriminante per l’extracomunitario che maltratti (fino alla violenza sessuale) la moglie, e neghi le risorse per il sostentamento dei figli, invocando l’esimente putativa dell’esercizio di un diritto, in quanto tali condotte sarebbero ammesse nel proprio paese improntato ad una diversa cultura. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, sentenza 14960/2015, respingendo il ricorso di un uomo di origine marocchina.

 

Sentenza di grande civiltà, diciamolo!

 


L’unicità dell’ordinamento
– Nel ricorso l’imputato aveva giocato la carta della diversità culturale sostenendo che nel proprio paese la moglie era «un oggetto di esclusiva proprietà» del marito. La Suprema Corte premette al riguardo che la sottoposizione della moglie a percosse e a maltrattamenti vari (così come lasciare il figlio senza mezzi di sussistenza) «appare contraria a qualsiasi principio e non può ritenersi espressione di alcuna cultura e, in particolare, di quella di appartenenza dell’imputato». Ciò detto, la sentenza osserva, più in generale, che in una società multietnica «non è concepibile la scomposizione dell’ordinamento in altrettanti statuti individuali quante sono le etnie che la compongono, non essendo compatibile con l’unicità della tessuto sociale – e quindi con l’unicità dell’ordinamento giuridico – l’ipotesi della convivenza in un unico contesto civile di culture tra loro configgenti».

Dunque, «la soluzione civilmente e giuridicamente praticabile è quella opposta, che armonizza i comportamenti individuali rispondenti alla varietà delle culture in base al principio unificatore della centralità della persona umana, quale denominatore minimo comune per l’instaurazione di una società civile». Questo è quanto postula l’articolo 3 della Costituzione laddove «in unico contesto normativo attribuisce a tutti i cittadini pari dignità sociale e posizione di uguaglianza nei confronti della legge, senza distinzione, in particolare, di sesso, di razza, di lingua e di religione».


Verifica preventiva
– Infine, chiamando in causa direttamente la responsabilità degli immigrati, i giudici di Piazza Cavour osservano che è «essenziale per la stessa sopravvivenza della società multietnica» che chiunque vi entri a far parte «verifichi preventivamente la compatibilità dei propri comportamenti con i principi che la regolano». E quindi anche la «liceità di essi», non essendo di conseguenza «riconoscibile una posizione di buona fede in chi, pur nella consapevolezza di essersi trasferito in un paese diverso e in una società in cui convivono culture e costumi differenti dai propri, presume di avere il diritto – non riconosciuto da alcuna norma di diritto internazionale – di proseguire in condotte che, seppure ritenute culturalmente accettabili e quindi lecite secondo le leggi vigenti nel paese di provenienza, risultano oggettivamente incompatibili con le regole proprie della compagine sociale in cui ha scelto di vivere».

«In tali condotte – conclude la sentenza – non è pertanto configurabile una scriminante, anche solo putativa, fondata sull’esercizio di un presunto diritto escluso in linea di principio dall’ordinamento, e quindi neppure l’eccesso colposo nella scriminante stessa», invocato dal ricorrente.

 

fonte: http://www.quotidianodiritto.ilsole24ore.com/art/penale/2015-04-13/maltrattamenti-famiglia-nessuna-scriminante-culturale-l-extracomunitario-170332.php?uuid=ABgNkiOD&cmpid=nlql

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Maltrattamenti in famiglia: NO al relativismo etico

Nessuna scriminante per l’extracomunitario che maltratti (fino alla violenza sessuale) la moglie, e neghi le risorse per il sostentamento dei figli, invocando l’esimente putativa dell’esercizio di un diritto, in quanto tali condotte sarebbero ammesse nel proprio paese improntato ad una diversa cultura. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, sentenza 14960/2015, respingendo il ricorso di un uomo di origine marocchina.

 

Sentenza di grande civiltà, diciamolo!

 


L’unicità dell’ordinamento
– Nel ricorso l’imputato aveva giocato la carta della diversità culturale sostenendo che nel proprio paese la moglie era «un oggetto di esclusiva proprietà» del marito. La Suprema Corte premette al riguardo che la sottoposizione della moglie a percosse e a maltrattamenti vari (così come lasciare il figlio senza mezzi di sussistenza) «appare contraria a qualsiasi principio e non può ritenersi espressione di alcuna cultura e, in particolare, di quella di appartenenza dell’imputato». Ciò detto, la sentenza osserva, più in generale, che in una società multietnica «non è concepibile la scomposizione dell’ordinamento in altrettanti statuti individuali quante sono le etnie che la compongono, non essendo compatibile con l’unicità della tessuto sociale – e quindi con l’unicità dell’ordinamento giuridico – l’ipotesi della convivenza in un unico contesto civile di culture tra loro configgenti».

Dunque, «la soluzione civilmente e giuridicamente praticabile è quella opposta, che armonizza i comportamenti individuali rispondenti alla varietà delle culture in base al principio unificatore della centralità della persona umana, quale denominatore minimo comune per l’instaurazione di una società civile». Questo è quanto postula l’articolo 3 della Costituzione laddove «in unico contesto normativo attribuisce a tutti i cittadini pari dignità sociale e posizione di uguaglianza nei confronti della legge, senza distinzione, in particolare, di sesso, di razza, di lingua e di religione».


Verifica preventiva
– Infine, chiamando in causa direttamente la responsabilità degli immigrati, i giudici di Piazza Cavour osservano che è «essenziale per la stessa sopravvivenza della società multietnica» che chiunque vi entri a far parte «verifichi preventivamente la compatibilità dei propri comportamenti con i principi che la regolano». E quindi anche la «liceità di essi», non essendo di conseguenza «riconoscibile una posizione di buona fede in chi, pur nella consapevolezza di essersi trasferito in un paese diverso e in una società in cui convivono culture e costumi differenti dai propri, presume di avere il diritto – non riconosciuto da alcuna norma di diritto internazionale – di proseguire in condotte che, seppure ritenute culturalmente accettabili e quindi lecite secondo le leggi vigenti nel paese di provenienza, risultano oggettivamente incompatibili con le regole proprie della compagine sociale in cui ha scelto di vivere».

«In tali condotte – conclude la sentenza – non è pertanto configurabile una scriminante, anche solo putativa, fondata sull’esercizio di un presunto diritto escluso in linea di principio dall’ordinamento, e quindi neppure l’eccesso colposo nella scriminante stessa», invocato dal ricorrente.

 

fonte: http://www.quotidianodiritto.ilsole24ore.com/art/penale/2015-04-13/maltrattamenti-famiglia-nessuna-scriminante-culturale-l-extracomunitario-170332.php?uuid=ABgNkiOD&cmpid=nlql

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