È legittimo l’utilizzo dello pseudonimo Neck da parte del cantante Filippo Neviani dopo lo scioglimento del gruppo. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, sentenza n. 18956 del 31 luglio, confermando le pronunce di merito che avevano rigettato le richieste di risarcimento del danno e divieto di utilizzo del nome d’arte, sollevate da un ex componente della band con funzioni di «compositore organizzatore». Secondo i giudici infatti «lo pseudonimo è tutelabile soltanto se corrispondente ad un uso effettivo ed attuale» mentre «da tempo non esisteva più un’entità collettiva denominata “Nek”, essendo rimasti del tutto ineseguiti i precedenti contratti».
Al contrario, il ricorrente riteneva di aver diritto al versamento delle royalties in quanto inizialmente il gruppo aveva agito come «unica entità», conferendo l’esclusiva ad un procuratore, anch’egli chiamato in giudizio, attraverso la sigla di due contratti: il primo del giugno 1991, il secondo del settembre successivo. Nel luglio del 1993 poi il ricorrente venne estromesso, tentò invano di riprendere la vendita di strumenti musicali «ma essendo ormai compromessa l’attività commerciale dovette chiudere il negozio». Per il Tribunale però i due contratti erano rimasti «del tutto ineseguiti», considerato che a distanza di un mese Neviani aveva firmato come solista, per cui il mandato rilasciato dal gruppo si era sciolto di diritto.
Una decisione confermata dalla Corte di appello secondo cui il ricorrente «fin dal 1993 era stato escluso dal gruppo senza opporre alcuna resistenza» e «lo pseudonimo “Nek” era ormai nel pubblico per un lasso di tempo sufficientemente lungo riferibile al Neviani, sicché nessun rilievo aveva la circostanza che in passato era stato utilizzato per individuare un gruppo musicale». Non solo, i tre dischi «Nek», «In te» e «Calore umano» concernevano il contratto intercorso fra il solo Neviani ed il procuratore. Infine, «mancando clausole riguardanti il «trio», ciascun membro del gruppo poteva recedere ad nutum.
In Cassazione il ricorrente, tra l’altro, ha sostenuto che spettava al giudice qualificare i fatti in termini di «rapporto di natura associativa» o «contratto di lavoro autonomo» e che nella comparsa conclusionale, sia di primo grado che di appello, aveva affermato che «il rapporto era riconducibile ad un contratto di lavoro autonomo (contratto d’opera)». Per la Suprema corte però «negozio associativo e contratto d’opera sono qualifiche che presuppongono diversi fatti costitutivi», e va dunque applicato il principio di diritto per cui: «ove l’attore alleghi nel corso del giudizio un diverso fatto costitutivo rispetto a quello originariamente dedotto, che comporti la sostituzione della domanda originaria con una nuova domanda ad essa alternativa ed avente ad oggetto il medesimo bene della vita, compete al giudice nell’esercizio del potere di qualificazione del fatto allegato collegarvi il corrispondente effetto giuridico in applicazione dell’articolo 113, comma 1, c.p.c., purché il diverso fatto costitutivo venga allegato nel rispetto del regime delle preclusioni processuali di cui all’art. 183 c.p.c.». Ma il ricorrente, prosegue, «non ha specificatamente indicato se nel termine previsto dalla preclusione processuale abbia dedotto il fatto costitutivo della prestazione d’opera in favore del Neviani (nek) quale committente, mutando così l’originario fatto costitutivo». E siccome il giudice «non può rilevarlo d’ufficio», non può neppure «esercitare il proprio potere di qualificazione dei fatti», ragion per cui anche questo motivo è stato ritenuto inammissibile.
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