Tribunale Ivrea, sez. lavoro, ordinanza 28.01.2015

 

l Tribunale di Ivrea, con ordinanza del 28 gennaio 2015, esamina il ricorso contro il licenziamento di un dipendente per post diffamatorio su facebook ai danni dell’azienda e dei suoi dipendenti. Il dipendente aveva pubblicato on line sul proprio profilo social di facebook la lettera dell’azienda di riammissione al lavoro (a seguito di un contenzioso) e aveva postato dei pesanti commenti diffamatori verso l’azienda e verso le colleghe di lavoro con espressioni volgari ed richiami e relativo accostamento alle attività delle prostitute.

Un’azienda procedeva nell’aprile 2014 al licenziamento per giusta causa di un dipendente per la pubblicazione di un post offensivo inserito sul proprio profilo personale di facebook. Il dipendente presentava ricorso al Tribunale di Ivrea contro il licenziamento e per la reintegra nel posto di lavoro e chiedeva la condanna della società al pagamento dell’indennità risarcitoria.

Il dipendente nel ricorso rappresentava che il proprio post (di cui non negava la paternità) anche se offensivo non poteva essere così grave da giustificare il recesso datoriale.

Il dipendente aveva pubblicato on line sul proprio profilo social di facebook la lettera dell’azienda di riammissione al lavoro (a seguito di un contenzioso) e aveva postato dei pesanticommenti diffamatori verso l’azienda e verso le colleghe di lavoro con espressioni volgari ed richiami e relativo accostamento alle attività delle prostitute.

Il magistrato ha osservato che i sopra citati post offensivi non erano stati inseriti in gruppi chiusi o su bacheche riservati ai c.d. “amici”, ma erano potenzialmente visibili a tutti gli utenti dei social media e ha evidenziato come i sopra citati post siano stati rimossi solo a seguito di esplicita diffida da parte dell’azienda.

L’analisi del giudice si è focalizzata sulla verifica se la condotta diffamatoria possa essere considerata così grave da non consentire la prosecuzione anche provvisoria del rapporto di lavoro.

Secondo il giudice la condotta in esame integra gli estremi delitto di cui agli artt. 81 cpv, 595 c. 1 e 3 cod. penale ed è caratterizzata da particolare intensità, violenza e ha avuto come oggetto non solo la società ma anche dipendenti con modalità potenzialmente molto offensive della reputazione. Il giudice ha evidenziato come le dipendenti oggetto delle offese non avessero alcun collegamento con la controversia di diritto del lavoro del dipendente.

Le offese reiterate e caratterizzate da espressioni volgari “ictu oculi” sono state ritenute dal giudice di assoluta gravità e sono state lasciate on line dall’autore per molteplici giorni.

Il giudice ha approfondito il profilo dell’espressione offensiva in acronimo “MILF” riportata sul post all’interno della bacheca di facebook, espressione di cui lo stesso dipendente ha richiamato la definizione dal portale wikipedia e che ha una forte caratterizzazione negativa, sia in relazione all’attività del soggetto (prostituzione), sia all’età avanzata (ultraquarantenni) in relazione alla professione medesima.

L’acronimo di per sé già grave era stato accompagnato da pesanti battute in relazione alla scarsa attività sessuale delle donne che, pur essendo dedite al meretricio, avrebbero comunque necessità di pagare somme di denaro per intrattenere incontri carnali con uomini.

Il giudice ha sottolineato come sia difficile comprendere come il dipendente convenuto possa pensare di mantenere in vita un rapporto di lavoro con un soggetto che, a mente fredda e senza alcun tipo di provocazione da parte di colleghe, ma solo in ragione di una accoglienza troppo amicale, aveva sostanzialmente insultate con gravi espressioni sessiste.

Secondo il giudice, il rapporto di lavoro, alla luce della gravità delle espressioni diffamatorie, non può proseguire.

Il giudice ha osservato come la pubblicazione del post offensivo non sia stata generata da un gesto istintivo –anche se inconsulto in quanto in questo caso il dipendente avrebbe provveduto immediatamente alla loro eliminazione e non dopo oltre due settimane, come in realtà accaduto.

Secondo il giudice, la condotta successiva del dipendente, denota da un lato la mancata percezione della gravità del proprio comportamento e, dall’altro la volontà di ledere nel modo più ampio possibile la reputazione delle colleghe e dell’azienda.

La difesa del dipendente ha richiamato precedente giurisprudenza (Cass. civ., sez. lav.,sentenza 2 ottobre 2012, n. 16752) secondo cui la sanzione espulsiva è ingiustificata quando “l’uso di espressioni offensive nei confronti del datore di lavoro… appare come una reazione, anche se eccessiva ed abnorme (ma anche istintiva) rispetto a promesse di parte datoriale non mantenute”.

Il giudice ha rappresentato che, nel caso in esame, non si è in presenza di nessuna promessa del datore (che aveva riammesso il dipendente!) né ad alcuna possibile vessazione o mobbing da parte dei colleghi.

La condotta dell’attore non ha, pertanto, alcuna giustificazione e la gravità dei fatti contestati ed accertati conferma la giusta causa posta a fondamento del provvedimento espulsivo del ricorrente.

Il giudice ha rigettato con ordinanza il ricorso e ha condannato il ricorrente al pagamento delle spese processuali sostenute dalla resistente, liquidate in euro 3.500,00 per compensi, oltre 15,00% rimb. forf. spese generali, I.V.A. e C.P.A. come per legge.

L’ordinanza in esame è di interesse in quanto conferma l’ingresso nelle cause di lavoro di post, commenti dei socialmedia inseriti on line dai lavoratori, profilo già presente in molteplici cause di famiglia (separazione).

Si tratta di una tematica già esaminata negli altri ordinamenti (casi di licenziamento non solo per commenti on line ma anche per like di gradimento a frasi e foto ingiuriose).

L’ordinanza conferma l’orientamento giurisprudenziale del licenziamento per giusta causa (App. Torino, sentenza del 17 luglio 2014, n. 164; Tribu. Milano, sez. lav., ordinanza del 1 agosto 2014) per post denigratori a danno del datore di lavoro ma anche nei confronti delle stesse dipendenti dell’azienda (ed è questo l’elemento di novità).

Nel caso in esame non è stato possibile approfondire il profilo della possibile indicizzazione dei post offensivi da parte dei motori di ricerca generalisti e quali set di condizioni policy privacy avesse opzionato il dipendente; né è stato esaminato il numero di contatti facebook del soggetto e se nella presenza sui social e all’interno del profilo personale vi fosse un evidente accostamento all’attività professionale e all’immagine aziendale.

Non è possibile evincere se il post sia stato pubblicato da pc di casa o durante l’orario di lavoro.

Il caso in esame dimostra come l’utilizzo dei social deve essere disciplinato nelle aziende attraverso la redazione di socialmedia policy, regole semplici e trasparenti, non in un’ottica repressiva, ma per rendere consapevoli gli utenti e gli operatori dei possibili rischi e prevenire perdite di dati, danni alla’immagine e alla reputazione delle organizzazioni.

Tali policy devono essere declinate sulle attività e caratteristiche delle imprese e devono ricomprendere non solo i dipendenti ma tutti gli attori aziendali (es. stagisti; consulenti, etc) e ricomprendere anche suggerimenti per la gestione dei profili social personali.

Nel caso in esame ci sono dei profili di risarcimento di danni non solo alle persone offese ma anche all’immagine, brand e reputazione dell’azienda, profili che potranno avere degli sviluppi giurisprudenziali (danno non patrimoniale e patrimoniale)

Occorre, inoltre, alla luce della gravità delle espressioni sessiste utilizzate dal dipendente sensibilizzare gli operatori ai valori delle pari opportunità, del rispetto e della tolleranza e adottare specifici codici di comportamento in materia.

 

tratto da: http://www.altalex.com/index.php?idnot=70433

 

 

Tags: